lunedì 23 gennaio 2017

Scrigno di gioielli con piccolo trucco

Perché nel linguaggio della rappresentanza turistica si dice spesso che piccole chiese ed oratori completamente affrescati sono "dei piccoli scrigni". E uno scrigno dovrebbe contenere gioielli, no?


Il-più-rispondente a questa logica è l'oratorio di San Rocco a Padova: completamente affrescato, dotato di una sua atmosfera - a mio sentire - un poco decadente (credo sia per causa di quello che a me sembra un soffitto piuttosto basso). Gli affreschi afferiscono alla Padova cinquecentesca, un po' come quelli dei quali si accennava qui.

Cercando tra i siti istituzionali della città di Padova, si legge che l'oratorio ha orari di visita, regole per fotografarne gli interni e, soprattutto e giustamente, un suo biglietto di ingresso, tre euro l'intero, due il ridotto.
Non è invece scritto, né forse molti padovani sono a conoscenza del fatto che-, che per l'ottanta per cento dell'anno - a spanne - l'oratorio è visitabile gratuitamente, in quanto ospita le mostre Pensieri Preziosi: questo autunno-inverno la undicesima edizione.

Pensieri Preziosi sono collettive e - più raramente - monografiche di oreficeria contemporanea.
Da qui, il Geografo potrebbe affrontare lo stravagante sterrato del pippone sull'oreficeria contemporanea ovvero, come lo chiamava quando era un blogger della prima ora, della prima piattaforma e di belle speranze: su GIOIELLO CONTEMPORANEO.
Tutto maiuscolo, sì.
 [...] lo stravagante sterrato che attraversa panorami di solidi geometrici lustri e lucidissimi e cose carbonizzate irriconoscibili, e materiali dei più strani ed estetiche opinabili e cose maniaco-ossessive di ripetizioni e moduli e inimmaginazioni - in effetti, alle volte - impossibili.
Più bizzarrìa, ego smisurati, sperimentazione vera, reiterazione.
Ci sarebbe da spiegare cos'è, GIOIELLO CONTEMPORANEO, come ci si è arrivati, come lo si guarda e, eventualmente, lo si apprezza.
Invece, semplicemente, il Geografo vi consiglia di andarci, nei prossimi giorni, all'oratorio, a vedere la personale di Stefano Marchetti - il quale, incidentalmente, è stato mio maestro (di GIOIELLO CONTEMPORANEO, sì).
Prendetevi un'oretta e andateci, ché è una bella cosa da conoscere, e dura fino a metà febbraio.
E tanto lo so, che sarete in centro a fare cose.
O gli aperitivi.

[l'oratorio sta in via Santa Lucia. Questa la pagina istituzionale di cui sopra.]

giovedì 8 dicembre 2016

Arriva l'inverno: con cibi adeguati

Vi siete mai chiesti come si mangia mentre si attraversa a piedi un'isola molto lontana, molto a nord, molto ostile? Pezzetti di racconto, e una proposta culinaria (già).

Patio cooking in Islanda.
(questa foto è del mio compare Marco)

Ridevamo ogni volta, quando era il momento di fermarsi, togliere gli zaini, e aprirli per preparare il pranzo. C'è un appunto, nel mio diario di Islanda, che dice: Ogni volta che cuciniamo, da qualche parte nel mondo uno chef piange.

Il nostro equipaggiamento alimentare, sufficiente a sostentare (male) i nostri corpi sotto sforzo per quindici giorni di trekking, era all'incirca così composto:
  • un chilo di riso;
  • un chilo di zucchero bianco;
  • un pacco da un chilo di polenta istantanea, ché mio padre ha insistito tanto;
  • una busta di  Harðfiskur, pesce disidratato secco che per gli islandesi è fondamentalmente uno snack, ma che per noi era magica quanto insipida fonte di proteine;
  • una selezione di piatti liofilizzati imbarazzanti, ma buonissimi e salvifichi quando in fine arrivava il momento del pasto.
Ai quali si aggiungeva un curioso fornelletto ad alcool, e relativa bottiglia di carburante, e posate e stoviglie ultraleggere.

Ogni punto di questa lista racchiude anedottistica multi-faccettata, ricca, inaspettata: comprendente incidenti di percorso, ingenuità, stravaganze, sviste.

Ma l'argomento di questo post non è l'Islanda (ci speravate, eh, e i quindici giorni necessari per attraversarla nord-sud, da spiaggia a spiaggia, pesantissimo zaino in spalla e tenda (fortunatamente condivisa col compagno di traversata); né è lo stringente argomento Perché si affrontano avventure delle quali pentirsi (mentre le si combina); né, infine, il modo in cui il desiderio e la fascinazione di Islanda continuano a lavorare dall'interno.

No: l'argomento di questo post è l'inverno, i vetri con la condensa, il freddo fuori intenso, dentro la casa calda e profumo di spezie: sempre che il freddo arrivi davvero. E' bensì il calcolo di una alimentazione invernale che riscaldi corpo e cuore, e che alimenti l'attività sportiva pesistica che, nelle stagioni fredde, si configura come mettere-su-massa.

E allora provate anche voi a cucinarvi in grossi pentoloni la Kjötsúpa, tradizionale zuppa di agnello islandese. Questi gli ingredienti, con una noticina a riguardo delle spezie usate che fa piuttosto ridere. Questa zuppa nutre, cura la depressione ed è medicamentosa. Buon appetito!















Kjötsúpa per italiani, ingredienti

  • un chilo di carne di agnello (si dice spalla, nei ricettari islandesi; io ho usato un "misto agnellone" [sic.] di dubbia provenienza)
  • un litro e mezzo d'acqua (o più, se serve)
  • sale, e molto pepe nero macinato
  • un misto di spezie che dovrebbe chiamarsi Villykrydd e che conterrebbe timo artico, foglie essiccate di betulla, ginepro, e un paio di cose in bacca anch'esse essiccate. Per pigrizia di reperire - ma prima o poi ci proverò - ho usato prezzemolo fresco, sedano, timo e alloro.
  • una cipolla
  • rape, mezzo chilo (ma si userebbe la rutabaga)
  • carote e patate, mezzo chilo in tutto
  • cavolo cappuccio affettato

Kjötsúpa per italiani, passo passo

(questo post è anche un viaggio negli elenchi puntati e numerati)

  1. si fa bollire lentamente in una pentola la carne di agnello fatta a pezzi abbastanza grossi, eventualmente pulita delle parti più grasse. Meglio se ci sono delle ossa.
  2. si schiuma il brodo e si fa sobbollire per quarantacinque minuti con sale, pepe, cipolla e aromi.
  3. la verdura deve essere tagliata in pezzi grezzi, secondo lo slogan "un pezzo, una cucchiaiata"; si aggiungono carote, patate e rape e si danno altri quindici minuti di sobbollire.
  4. ultimi quindici minuti di cottura con aggiunta del cavolo. 
  5. si estrae la carne dalla zuppa, la si taglia a pezzetti e si eliminano le eventuali ossa; si rimette nella zuppa, si aggiunge dell'acqua se serve e si regolano i sapori.
La zuppa sta bene nella sua pentola per una notte, a sviluppare sapori vichinghi. Dopodiché sarà servita calda, in ciotole capienti, con una spruzzata di prezzemolo fresco. Si mangerà la sera, prima di partire in notturna per scorribande verso coste pacifiche.

(le istruzioni vengono da qui)

mercoledì 23 novembre 2016

Le grotte del Caglieron, pt.2

Non è in realtà un "parte due" nel vero senso della parola, ma è il frutto di ulteriore esplorazione, a dire: c'è sempre tantissimo da curiosare - ovunque, vicino, attaccato, affianco, nei dintorni.


Così non contenti siamo sbucati sulla strada asfaltata giusto prima del punto ristoro relativo alle grotte del Caglieron, dopo le pìrole del giro [delle Grotte] stesso, e cartelli malfermi indicavano una ulteriore cavità - la Grotta di Santa Barbara, forse? - e le rovine del castello di Piai: sentiero bello pendente parallelo alla strada, da imboccare senza indugio.

Dopo essere passati - con un po' di imbarazzo - attraverso l'aia di una casa ruralissima, ci si ritrova dentro un bosco fitto, scuro: sentieri altri sono indicati verso tutte le direzioni mentre si sale - oh!, si sale - in direzione delle ruine. E mi piacerebbe essere un po' botanico, per poter descrivere la trasformazione del panorama vegetale durante l'ascesa: ma non lo sono, e quindi niente.

E niente anche per il parlarvi delle ruine: perché lì ci sono pannelli che raccontano di nomi medievalissimi e buffi, tipo Guecellone e Rizzardo; e anche vorrei/potrei parlarvi della storia di quei luoghi: ma il sito della pro loco di Fregona è completissimo.

Vorrei dipingere anche ai vostri occhi i boschi autunnali di-cui-sopra, ombreggiarli per mezzo della luce poco-prima-del-tramonto, incorniciarli di gambe che vanno.

Invece solo vi racconterò in due parole di come salendo io, da bravo ex-praticante tangente e lavorativo della disciplina archeologica, ho prefigurato alla mia Compagna che, Stai a vedere te, le rovine magari saranno poche pietre residue, forse anche invisibili, solo una traccia di fondamenta, un residuo di fossato, un grande vuoto tra gli alberi dove ci immaginiamo, sbuffando per la salita, un imponente maniero.

E quindi svoltiamo l'ultimo tornantino di sentiero prima dell'ascesa finale alle rovine, e sul cartello che le annuncia si legge una benevolmente preventiva scritta a pennarello, che vi trascrivo perché la foto è pessima:

se siete qui per il castello non c'è una minchia!

Con aggiunte forse di pochissimo successive: Vero!! Verissimo! Confermo!! 

E il notevole cappello (xe do piere), sono due pietre, tra parentesi.

La passeggiata è piacevolissima, comunque.

(anche se - al di là della delusione edilizia - manca un po' di panoramica, dacché alberi sono cresciuti tutto attorno la sommità del colle dove sorge(va) il castello, e non si riesce a vedere dall'alto un fin-di-valle che sembra piuttosto interessante...

(qui un po' di storicismi)

lunedì 21 novembre 2016

"Perché è il volo."

C'è un piccolo piccolissimo novero di cose nei confronti delle quali le parole sfuggono: ed è impossibile comunicarne le sensazioni, punto.

Quindi, un breve elenco d'appunti e note personali, per un post dal carattere praticamente pubblicitario, a riguardo del volo in parapendio tandem.
Non sembrava la giornata ideale.
- la lezione più grande andrebbe alla fine, come una specie di cappello riassuntivo, un e-comunque morale. Invece meglio sbrigarsela subito: ed eccola qua: un forse è spinta sufficiente a provare. E quindi l'autunno, la nebbia, l'incertezza metereologica non ci hanno impedito di dire Partiamo, alla meno peggio cerchiamo un posto per mangiare nei dintorni, e torniamo. E invece l'autunno, la nebbia, l'incertezza hanno contribuito a creare (ulteriore) Magia. La "giornata ideale" la si può ricavare in mille modi.
- quando stai seduto nel dietro di una jeep stile safari africano, e la strada (?) è un budello tortuoso e ondeggiante e sconnesso che scala montagne, affiancato da improvvisi vuoti, tronchi, rocce sporgenti: e il guidatore dà di acceleratore come non ci fosse Il Tempo; e il fondo stradale (?) cambia frequentemente e improvvisamente - asfalto crepato, foglie stratificate umide e scivolose, cemento, buche (intese proprio come materiale costruttivo) - beh: in questa condizione, ricordati di tenere sempre la testa bassa, il mento contro il petto, ché le botte a maniglie, maniglioni e finestrini sono inaspettate, e potenzialmente tante.
- che boschi, che boschi!: colori densi dell'autunno, un'apparente immota Natura, strati di foglie secche arancioni, prospettive che cambiano per le curve rapidissime, per improvvise pendenze impossibili; e cartelli segnaletici che promettono sentieri splendidi.
- se ti dicono guanti, guanti è meglio averne.
- fa impressione - questo sì - la forma del punto di decollo: un triangolo di prato a zolle grosse e festuche, vagamente fangoso, una pendenza preoccupante, il vertice lontano, in fondo, che si immerge in vegetazione boschiva (per l'autunno) secca.
- e invece l'impressione di cui sopra svanisce in un attimo, forse perché tutto è velocissimo - fai quattro passi, l'istruttore alza la vela e la vela vi strattona indietro, ti viene detto di correre tantissimo ma in realtà questo tantissimo dura poco, perché i piedi che corrono si alzano da terra, tu ti siedi nell'imbragatura, e poi è Magia,
- perché beh. Perché è il volo, constaterà poi uno degli istruttori, dopo gli atterraggi: e c'è poco-niente altro da dire.
- c'è poco-niente altro da dire del dettaglio di un milione di alberétti sotto di te, della precisione delle stradicciole e delle casupole immerse nei boschi, delle valli incassate strettissime e tortuose e della ruina di edifici che pochi decenni fa erano vivi; e di denti rocciosi che esplodono verso l'alto improvvisi, c'è poco-niente da dire: dell'orizzonte ultra-placido del lago; poco-niente da dire della bellezza non scontata, ricca, dell'atmosfera brumosa autunnale - e quel limite orizzontale tra umidità e non umidità, tra vivido cristallo e sfumata opacità; poco-niente da dire delle sensazioni fisiche, dell'aria in faccia, dell'ampio virare; poco-niente da dire di qualunque riferimento letterario tu possa fare, novello Icaro, provetto esploratore od eroe dell'aviazione.
- le reazioni dell'essere umano a questa esperienza sembrano essere le più variabili. Riso, pianto, magone, magone bello, vertigine, adrenalina, sono-padrone-del-mondo, estrema rilassatezza. Io, di mio, ho passato alcune mezze ore, dopo, con le membra alleggerite, quasi tremule, per il senso di quiete profondissima.
- a me è capitato inatteso, regalo al quale non avrei mai pensato, e cosa non certo ai vertici della mia lista di desideri. Incredibile.
- e incredibile - visto che spesso si configura proprio come esperienza regalo - è il viverlo con la persona che te lo regala. Prendete nota di questo, e guardatevi questa pagina Facebook, e ritagliatevi una giornata.
- e comunque, 'sto Lago di Garda è una sorpresa dietro l'altra [continua.]

giovedì 17 novembre 2016

Piccoli scrigni dipinti, a Padova

Affacciate a piazzette secondarie, meno blasonate, quasi dimesse nel traffico e nella vita quotidiana di Padova, ci sono chiese comunque di un certo fascino, con dipendenze tutte da scoprire.



Tipo in piazzetta Petrarca, o del Carmine. Dove tutti noi universitari letterati o linguisti - o tiratardi della piazza degli spritz - si finiva prima o poi a mangiare il kebab. La piazzetta è lì, un poco svilita dalla strada che la taglia, diagonalmente, in parti ineguali: e questa strada è trafficata, bordata di parcheggi sempre occupati, a proiettare confusione. La piazzetta ha quella peculiare vegetazione di certa Padova: magnolie, pino, palme; sul lastricato di fronte al portone della chiesa - formelle consunte di legno a tema vegetale, piacevole, semplicissimo - c'è un enorme fiore bicromo che ai vecchi informatici può ricordare l'iconcina di Icq. Sulla sinistra della facciata di mattoni, quasi rustica, c'è una lapide che ricorda (vado a memoria) la distruzione della cupola per mano di bombardamento guerresco: ad una veloce ricognizione storica però, si scopre che un secolo prima la stessa cupola fu distrutta completamente, più prosasticamente, dalla malasorte di uno spettacolo pirotecnico in festeggiamento d'una elezione papale. Sulla destra invece - non la prima ma la seconda, porta - c'è l'accesso alla Scoletta del Santuario: e questa Scoletta è aperta un paio di giorni alla settimana - il martedì e il giovedì - dalle nove di mattina alle quattro del pomeriggio: sempre, tranne il mese di dicembre perché, mi dicono i volontari che la tengono aperta, il prete, ahem, non vuole.

All'interno, la Scoletta è completamente dipinta: completamente: mostrando un riassunto della pittura padovana del cinquecento piuttosto completo, e ben tenuto.

Un giro lo si può fare, sono alcuni minuti spesi bene.







Dopodiché, santificati nell'animo, gli occhi pieni di bellezza affrescata, rinfrancati nell'attitudine e purificati negli intenti, potete uscire alla luce della piazza, alzare lo sguardo, e chiedervi come mai una banderuola di tal fatta:



lunedì 14 novembre 2016

Ponti tibetani e tensioni indipendentiste

Questo è come funziona, alle volte: come si progetta - e realizza - una camminata poco impegnativa ma, soprattutto, completamente soddisfacente: per le gambe, e gli animi.


Così il meteo dava un sabato di sole, e nell'aria c'era bisogno di molta distrazione, e di tenere in movimento delle gambe indolenzite da troppe serie da venti di squat con bilanciere. Ci voleva - il tono è quello del narratore delle pubblicità del Montenegro - ci voleva quindi un percorso abbastanza lungo da permettere alle chiacchiere di fare il loro lavoro, e ai pensieri di chetarsi; abbastanza vario da non annoiare; che non prevedesse inerpicamenti ed avventure perigliose; divertente e curioso.

Nel nostro elenco lunghissimo di cose da vedere occupava un posto abbastanza prioritario - un appunto copiato dall'internet: "perfetto per il tardo autunno" - il ponte tibetano sulla Strada del Re (dal Pian delle Fugazze a rif. Campogrosso, in provincia di Vicenza, da qualche parte a sud del Pasubio). Ho steso quindi la carta Tabacco delle Piccole Dolomiti (numero 56) sul pavimento del salotto, e ho giocato con le possibilità di un giro ad anello di circa quattro ore: pendenze modeste, e cosette da vedere lungo la strada.

[Questo scritto dovrebbe in realtà parlare di un clima piuttosto freddo - una leggera imbiancata di neve a terra, e agognare i tratti esposti al sole - e di improvvise e insistenti raffiche di vento, e di come, data una qualunque superficie cartografica cartacea (piuttosto ampia, comunque), il percorso che tu hai da seguire - e, siccome nuovo alla tua esperienza, da verificare con una certa frequenza - si trovi in ogni caso rappresentato proprio sulle pieghe della carta: rendendone l'apertura e la consultazione, ai di-cui-sopra vento e freddo, ogni volta complicata, e svolazzina.]

Comunque. Un bel riassunto del Veneto prealpino di montagna, con poca fatica e molto piacere geografico. Con le scritte VENEXIT a bomboletta gialla lungo i tornanti. Con le cose di ossari e grossi proiettili e monumenti silenziosi della Grande Guerra, lo sguardo panoramico su valli ancora morbide di nebbia e, più in là, la pianura che lavora e produce: e cannoni puntati ancora verso nord, ché non si sa mai. Con stradette pensate per essere percorse in Panda, dipanate attorno a monti modesti, ma comunque vertiginosi, spaccati, vivi: frane attive, rocce e roccette bianche per essersi appena staccate da poco-più-in-sù; roba che scivola e rotola. Poi un rifugio, dove scaldarsi un attimo e guardare le vie di scalata disegnate originariamente a penna e poi fotocopiate, e bere un Genepì fatto in casa versato da una bottiglia ENORME che versa in un piccolo tappo-alambicco che versa - finalmente - nel bicchierino, con grande scomodità di chi la maneggia, questa bottiglia. Con la deviazione sentieristica per tagliare un paio di lunghe anse asfaltate: e la meraviglia di boschi fittissimi, letti di foglie secche ad alternarsi alla neve sottilissima, massi enormi rotolati su piccoli prati a rendere il paesaggio vario, piccole malghe nelle quali sarebbe bello pensarsi la sera al calore del fuoco. (Si poteva tornare alla macchina scavallando una selletta, che immagino poco impegnativa; ma abbiamo preferito ricongiungerci alla strada delle Sette Fontane, e quieti poi rincasare.)

Il tutto è segnalato alla perfezione da un fiorire di cartelli per una volta non scoloriti o sradicati. Fatelo, questo giro: ve ne passo cartografia, se vi serve. Sono terre che hanno molto da dare. I colori dell'autunno mancano un po', forse: ma riempire gli occhi di cose belle, il fiato a condensarsi davanti la faccia per un corroborante freddo, e poi chiudere la giornata con un vino in un qualche venetissimo baretto dell'alto vicentino, al concerto bizzarro di bestemmie e suonetti delle slot machine, merita.

PS. In un sabato d'autunno soleggiato abbiamo incontrato davvero moltissima gente, in giro. Molti erano lì per i trenta, quaranta minuti di camminata verso il ponte cosiddetto tibetano, che è un po' l'attrazione turistica, ora (è di apertura recentissima, e ha ovviato ad una frana che altrimenti interrompeva il percorso). E' carino da attraversare, fa curiosità e la visuale è splendida, ma quello che conta è che attira, ignari, verso terre che sembrano essere piuttosto soddisfacenti, e ricche, da esplorare.


Indicazioni velocissime. Si parcheggia a Pian delle Fugazze (si pagano, i parcheggi: ma ci sono dei lungostrada gratuiti), e ci si incammina in direzione Ossario del Pasubio (il quale si può anche deviare quei dieci minuti per visitarlo). Si prosegue lungo la strada Del Re - dove si incontra il ponte - e si prosegue verso rifugio Campogrosso. Da qui, si ritorna alle Fugazza via strada asfaltata, oppure seguendo il sentiero 170 verso malga Boffetal e strada delle Sette Fontane oppure, per i più ardimentosi, verso selletta Nord-Ovest. Quattro ore in tutto, pausa pranzo (al Sacco) e Genepì compresi.

venerdì 11 novembre 2016

Le Grotte del Caglieron.

Uno di quei luoghi magici da scoprire, da tramandare alle persone: salvo poi scoprire che tutte le persone ne hanno già sentito parlare, sanno cos'è, sanno dov'è. Ma nessuno alla fine ci è stato davvero.

E niente: ci sono queste "grotte" - un complesso di aperture, scansi, cavità - nascoste nella boscosità delle colline che si appoggiano al Cansiglio; grotte che percorri per mezzo di una passerella di legno, al di sotto della quale scorre un ruscello, mentre dall'alto pendono vegetazioni da foresta pluviale; tutto attorno - a racchiudere, e un po' a nascondere - tutto attorno colline boscosissime, rarefatta l'attività umana, e una certa forma di sospensione del tempo piuttosto gradevole.

Sono le Grotte del Caglieron (nel comune di Fregona, TV), e la camminata è una piacevole passeggiata di meno di un'ora, bella perché punteggiata di dettagli diversi: il passaggio fatto così, il fascio di luce che viene proprio da lì, l'edificio storico con la sua atmosfera di isolamento, l'agglomerato di case, il tornantino nel bosco, il punto panoramico... la cascatina, il fiore strano, la galleria naturale, il pilastro ricavato nella roccia. C'è la magia-di-Natura, e c'è l'artificiale: tutto intrecciato con armonia e curiosità e bello-da-vedere.
Dal punto di vista esplorativo, il rapporto fatica-scoperte è davvero, positivamente notevole.

Nello stesso tempo, come da apertura, le grotte del Caglieron sono conosciute, diffuse nella percezione delle genti. C'è un fiorire - davvero - di internet, con commenti e recensioni e indicazioni molto più precise delle mie; peraltro io ci sono stato ormai già un paio di mesi fa, e pure ero distratto - avevo ancora negli occhi la tavolozza caldissima del Cansiglio, scoperta per la prima volta giusto qualche ora prima, il corpo ancora immerso, un po' intontito, nella sua atmosfera vagamente nebbiosa, fredda; e le grotte - essendo domenica - erano frequentatissime: buon per loro: ma la magia, forse, ne ha perso un poco.

Quindi il Geografo cosa può raccontarvi, di originale? Cosa può guidarvi a fare, senza spogliarvi del piacere dei due-passi esplorativi?
Boh.
Intanto, vi consiglia: se riuscite ad essere di passaggio da quelle parti durante la settimana - non so, magari è uscita una giornata in Cansiglio per un improvviso concomitare di giorno libero e meteo felice - ritagliatevi un'oretta (abbondante), predisponetevi al curiosare, e passate di là.
Vi lascio un paio di link, e nel frattempo penso a qualche altra cosa in zona da tramandarvi.

Tutto quello che c'è da sapere sulle grotte del Caglieron.
La pagina FB del Comitato di Tutela delle grotte.

PS. Evitate le giornate invernali: le grotte sono sempre aperte (e gratuite), ma l'accesso viene interdetto nel caso di ghiaccio: ché diventerebbe tutto scivolicchioso,